Una premessa che orienta l’intervento
Il tema dei maltrattamenti alle donne è oramai largamente conosciuto e le statistiche ci raccontano che è un fenomeno mondiale e trasversale, presente in ogni ceto sociale, indipendentemente da titolo di studio, reddito, cultura, provenienza o età. Parimenti ne sono noti i disastrosi effetti sulla salute delle donne, in più circostanze ricordato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Dal 2005 anni lavoro a stretto contatto con le vittime di violenza intra ed extra-familiare in tutte le sue declinazioni: fisica, psicologica, spirituale, economica, stupro, stalking, mobbing.
Le donne che si trovano ad essere oggetto di violenze e giungono presso il Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini a Roma, in genere vi accedono in fase di acuzie. È quindi preponderante il bisogno dell’intervento medico-infermieristico e dell’équipe antiviolenza per comprendere le dinamiche che hanno motivato la richiesta d’aiuto. Ci capita di verificare che perlopiù non vi è, da parte dell’utente, la consapevolezza dell’essere vittima di violenza e quindi una chiara richiesta di fuoriuscita dalla stessa. Molto spesso le donne arrivano in Pronto Soccorso cercando supporto ed assistenza esclusivamente sanitaria. Di conseguenza l’accesso in area di Pronto Soccorso diviene punto d’arrivo e di partenza in un processo di possibile fuoriuscita dalla spirale della violenza.
Lo Sportello Donna, nato nel 2009 come prima realtà in Italia orientata al supporto delle vittime di violenza funzionante durante le 24 ore all’interno dell’area di uno dei più grandi Pronto Soccorsi d’Italia, può contare sulla presenza di esperte nel settore della violenza di genere che garantiscono un approccio ed una lettura multidimensionale del fenomeno. Oltre a ciò, si interfaccia con diverse figure, avvalendosi di vari strumenti:
- Gruppi multiprofessionali: gli operatori sanitari interni al Pronto Soccorso in un’ottica di integrazione delle competenze e delle attività, dove la parola chiave è condivisione degli obiettivi;
- Studio legale: il supporto di legali esperte nell’area della violenza di genere, sia in ambito civile, minorile e penale allo scopo di sostenere la donna per quanto concerne ad esempio richieste di separazione, denunce-querele, richieste di misure restrittive;
- Riunioni d’équipe: consentono al gruppo di lavoro dello Sportello Donna, di monitorare le criticità, elaborando buone pratiche nella condivisione di modalità d’intervento.
- Supervisione clinica: allo scopo di esternare le componenti emotive connesse all’impatto traumatico della violenza, ma anche di prevenire il burn-out fornendo argini e contenimento al possibile rischio di ‘traumatizzazione secondaria’ delle operatrici antiviolenza;
- Risorse della comunità: a seconda del percorso co-costruito assieme ad ogni singola donna, può inoltre emergere l’esigenza di lavorare di concerto con la rete sul territorio.
Metodologia e strumenti della relazione d’aiuto
L’équipe, nell’accogliere i bisogni delle donne che accedono al servizio in emergenza, sostiene i bisogni e le scelte di chi si trova a subire violenza, rispettando i suoi tempi e creando uno spazio di decompressione in cui ricostruirsi ed esprimere la propria volontà troppo spesso fiaccata da anni di vessazioni. L’équipe ha cura di non sovrapporsi o sostituirsi alle scelte dell’utente ma promuove e facilita l’emersione di un processo che mobiliti la resilienza della donna, prospettando un ventaglio di strade percorribili nel rispetto delle alterità di ciascuna.
Accoglienza empatica e non giudicante
Il primo incontro, nella stragrande maggioranza dei casi, avviene su invio del Triage, quindi senza preavviso e senza che ci sia da parte della donna un’elaborazione della sua condizione di imbrigliamento nelle dinamiche della violenza. Non si possono dunque far emergere i bisogni delle utenti che ci si prefigge di sostenere, se prima non ne emergono i vissuti.
É importante procedere rispettosamente per creare uno spazio in grado di fornire una qualità di tempo differente dalla concitazione che vige nel Pronto Soccorso, per poter offrire un ascolto sintonizzato e proattivo ai bisogni emergenti dalle singole situazioni, mostrandosi in grado di fornire risposte non preconfezionate come premessa di una relazione d’ascolto empatica, di un’accoglienza che creerà il collante per l’integrazione degli altri interventi che sarà necessario attivare nella relazione d’aiuto.
Si cercherà di far affiorare l’unicità di ogni singola storia di violenza e le peculiarità di ogni singola utente, senza cedere alla tentazione dell’etichettamento semplicistico del ‘vista una, viste tutte’ che porterebbe a trascurare ‘dettagli cruciali’, facendole sentire nuovamente ‘non viste’ nella loro interezza.
Difatti, poter finalmente fare esperienza dell’essere creduta, rappresenta un elemento che, ponendosi a contrasto col quotidiano depauperamento delle proprie risorse, conseguente le vessazioni psicologiche, scardina l’impalcatura della violenza di genere e, creando un’alleanza sufficientemente buona, può divenire il perno su cui poggiare l’auspicabile buon esito dell’intervento in emergenza.
Un’ulteriore aspetto da tenere in considerazione, è quello di fornire alla donna la possibilità di mostrare anche quelle parti di sé ancora invischiate affettivamente col maltrattante, accogliendo la liceità del suo sentire e dunque sciogliendo la sua vergogna, creando un contesto in cui possa portare tutte quelle parti di sé che collidono dolorosamente e che contengono il caos, la confusione e persino la sua stessa autosvalutazione. Sperimentandosi nella libertà di non dover scegliere tra contrastanti rappresentazioni di sé, la donna tornerà gradualmente ad essere integra nella sua complessità, senza dover aderire ad un ideale precostituito.
Bisogna infatti tenere presente che le donne che subiscono violenza intrafamiliare si ritrovano incastrate in una situazione paradossale: la persona che perpetra la violenza è la stessa della quale inizialmente si sono innamorate e con la quale hanno un legame affettivo o con cui hanno condiviso una progettualità, proprio perché nelle relazioni d’intimità, la violenza non si manifesta da subito apertamente. Appare dunque plausibile che nella figura del maltrattante la donna abbia potuto scorgere dei lati positivi e che a ciò sia rimasta legata per preservare il legame affettivo, finendo con il trascurare e minimizzare alcuni segnali di possibile pericolosità del partner.
In questa cornice appare fondamentale, per quanto complesso, prendere le distanze da un atteggiamento giudicante e punitivo nei confronti del compagno, poiché di rimando è come se si svalutasse la donna per aver scelto ‘un uomo simile’, rivittimizzandola e portandola a doversi difendere e a sviluppare fondamentalmente due tipi di reazioni: vergogna, umiliazione e l’allontanamento dal servizio assieme alla possibilità di cambiamento, o a indossare la maschera dell’utente modello, che la spinge a plasmarsi secondo le aspettative dell’altro, aderendo a rigidi e talvolta irrealistici schemi ideologici, salvo poi allontanarsi dal servizio alla prima occasione. In entrambi i casi sarà un intervento che non porterà nulla di diverso da quanto la donna già prima conosceva.
Linguaggio, informazione e comunicazione flessibili
Di grande rilevanza sono le parole accolte, dette e soprattutto quelle taciute che è possibile rintracciare nello spazio relazionale del non verbale.
Il linguaggio e le parole dell’operatrice danno forma e confini al caos che l’esperienza di violenza e/o abuso, rendendo comunicabili gli aspetti spesso più scomodi e dolorosi, ‘indicibili’. Per essere efficaci e raggiungere l’utente nella sua bolla di impotenza appresa, le operatrici debbono adattarsi a ciascuna, tenendo conto del suo retaggio culturale, del suo livello di scolarizzazione, della sua persona in toto.
Nel contesto protetto della relazione d’aiuto, iniziano a porsi le basi per la creazione di un linguaggio condiviso per radicare l’intervento supportivo e facilitare l’acquisizione di corrette informazioni che si fanno largo in una selva di comprensibili preoccupazioni ed aspettative e rimodulano il bagaglio di notizie spesso fuorvianti, con la quale la donna accede al servizio. Tutto ciò promuove l’acquisizione di nuove skills o la riscoperta di quelle già possedute e l’emergere di strategie di coping e problem-solving, la capacità di stare nel qui ed ora della relazione dell’incontro con l’altro-da-sé in maniera più autentica, co-costruendo nuovi percorsi di autodeterminazione, stimolando l’ancoraggio al sé-corporeo.
Infine, un elemento del comunicare che può fare da collante ed arricchire il complesso minuetto della costruzione della fiducia di base, è rappresentato dall’importanza del lasciar spazio all’ironia ed al poter tornare a sorridere insieme. Entrare assieme in uno spazio anche ludico, collaborerà a consolidare l’alleanza e la fiducia e dunque, la possibilità di porre le fondamenta per un intervento efficace e duraturo.
L’etimologia del danno
Come impatta la violenza sulla donna? Diversi sono i volti rappresentati dall’informazione mediatica che sembrano troppo spesso tagliare con l’accetta un fenomeno scivoloso e difficile da afferrare come la violenza di genere. Va tenuto presente che il femminicidio non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno difficile da cogliere dalle statistiche ufficiali e proprio per la posizione strategica e continuativa del Pronto Soccorso, che offre la possibilità di accedere ad un ampio spettro della popolazione femminile non necessariamente consapevole della propria condizione, diventa finalmente possibile tratteggiare i lineamenti di quello che definisco il volto del sommerso (Gargano O., 2011).
Le ripercussioni sulla salute psicofisica delle donne sono molteplici e parimenti la difficoltà a districarsi dalle conseguenze delle innumerevoli variabili che possono essere chiamate in campo quando si parla di violenza. Parallelamente, aprendoci a livelli di complessità crescente, si evidenzia come, dal concatenarsi di ogni singola combinazione di eventi, cambino il portato emotivo, l’incistamento, il carico inferto e gli esiti della violenza sulla donna e sulla prole, spesso in termini di violenza assistita e/o subìta.
Il volto del trauma
La ricostruzione congiunta della storia traumatica consente alla donna di ripercorrere le tappe attraversate e comprendere gli incastri del suo vissuto scavando in dettagli trascurati, inanellando situazioni talvolta sottovalutate, persino in eventi perlopiù rimossi oltre a quelli più vividi ed esplicitamente imperniati di violenza esplicita e leggibile.
La narrazione della storia traumatogena consente di recuperare le singole maglie che costituiscono la trama violenta esperita e di riprendere il filo del sentire, per poterne condividere il portato emotivo, connotato da sensazioni corporee ed immaginari talvolta terrorizzanti ed elusi, rimasti impantanati nella solitudine dei vissuti della donna. Questo anche per comprendere le eventuali responsabilità del perdurare dell’incastro,
Sin dai primi colloqui di sostegno è un raccontarsi a partire dallo sguardo persecutorio del maltrattante, attraverso un profondo senso di disvalore introiettato, che ha imbozzolato ogni movimento, circoscritto e coordinato ogni gesto e ogni parola, ogni respiro della donna che sceglie di chiedere supporto e sostegno per la sua situazione di ingabbiamento. Questa modalità di accedere al campo della relazione d’aiuto, ci racconta quanto l’invasività del percetto altrui abbia invaso i confini, minato il senso di sicurezza, facendosi promotore di un pervasivo senso di disvalore e collaborato ad allontanare i vissuti e le sensazioni della donna introducendo al loro posto il dubbio insinuante di essere pazza o sciocca, come le viene costantemente rimandato dal partner psicologicamente violento. Ecco quindi che poter mettere fuori lo sguardo pernicioso, giudicante e accusatorio dell’altro, all’interno della relazione d’aiuto, diviene una implicita richiesta di rassicurazione, primariamente del fatto che non si sia preda di follia, né colpevoli della propria vittimizzazione.
Molteplicità delle strategie dissociative nei casi di violenza nelle relazioni intime e rischi. Una riflessione
Per sfuggire alla seduzione delle generalizzazioni, occorre sottolineare come, alla multidimensionalità del fenomeno della violenza nelle relazioni intime, faccia eco la variegatura delle potenziali vittime, e altrettanto sfaccettata sarà la densità della durata dei maltrattamenti e la pregnanza degli esiti del superamento o invischiamento.
Dall’osservazione dei numerosi casi che ho seguito, una cospicua parte delle narrazioni raccolte riferiscono storie in cui si possono riscontrare sia precedenti relazioni in cui la violenza era stata agita ai danni della donna, che traumi cumulativi (Khan, 2002) o violenza assistita intrafamiliare, a testimonianza di trascorsi in cui costellazioni traumatiche, sembrerebbero essersi incistate, ponendosi come base per il reiterarsi ed il perdurare della violenza, declinata anche in senso multigenerazionale.
Ragionando a partire da tale casistica è possibile rintracciare, non senza la dovuta cautela e le dovute discrezionalità, l’ipotesi di matrici relazionali che afferiscano talvolta sin dall’età evolutiva al più ampio concetto di MOID (Modelli Operativi Interni Dissociati) [1], presenti all’interno di Relazioni di Attaccamento Traumatico, che implicano l’instaurarsi di memorie relazionali (V. Caretti, G. Craparo, 2008, pg.14-30) procedurali e di legami in cui gli stili di rispecchiamento introiettati saranno perlopiù «microscopicamente traumatici» [2], alterati e disfunzionali, connotati da tendenze dissociative e disorganizzate, emergenti nelle e dalle relazioni oggettuali inerenti il campo dell’inconscio corporeo e relazionale, che portano come conseguenza preponderante, la riattualizzazione di interazioni a forte coloritura perturbante [3].
Alla luce di ciò è possibile cogliere la salienza dei primi scambi nella relazione d’attaccamento con i caregivers, come essenziale per la regolazione interattiva nel primo anno di vita a garanzia di uno sviluppo armonico e l’auspicabile peso nelle relazioni future.
Per il neonato, sperimentare l’angoscia scaturita dal reiterarsi di simili disarmonie relazionali, è un’esperienza intollerabile, fortemente disaggregante e traumatogena, che impone il ripiegamento su se stessi e il formarsi di strutture caratteriali a livello psicocorporeo (Ballardini M., Filoni R., 2011, pp. 15-16), spesso di natura dissociativa anche se non necessariamente di ordine psicopatologico, che possono predisporre a maggiore vulnerabilità nell’area delle interazioni sociali e di prossimità, mantenendo intatte e funzionali le altre sfere di vita del soggetto.
Per il riferimento ai processi dissociativi possiamo pensare a Bromberg quando parla della funzione ed della qualità operativa del ‘distacco’, teso a svolgere una funzione protettiva «contro i dolorosi affetti associati con l’attaccamento, come l’ansia da separazione, la perdita dell’amore, e il desiderare senza speranza» (Bromberg, 2007, pp.33-34) per monitorare proteggere l’integrità dell’Io dalle invasioni di certi incastri relazionali nocivi. Dunque, la mimesi affettivo-emotiva descritta da Schnarch (2001) attraverso il concetto di senso del sé riflesso, che sebbene inizialmente garantisca la sopravvivenza della relazione di coppia, alla lunga ha un costo
Iniziamo dunque a sentire il profumo delle strutture caratteriali pregenitali descritte da Lowen (2007) e dei sostanziali diritti negati di esistere, di avere bisogno e soprattutto delle dinamiche presenti in quel diritto negato di possedere sé stesso, di cui parla Johnson (2004, pg.160) in riferimento al carattere simbiotico.
Questa premessa non vuole scivolare nel semplicistico etichettamento di donna simbiotica che magari un po’ se l’è cercata, come talvolta capita di sentire quando è la leggerezza e l’irresponsabilità del ‘senso comune’ ad archiviare sbrigativamente un simile argomento. Tutt’altro. Occorre puntualizzare che, a contraltare alla dimensione femminile qui presa in esame, vi sia la figura del partner maltrattante, in questo contesto volutamente lasciata sullo sfondo, che colora con le sue peculiarità l’incastro in oggetto. L’intento è di porre le basi per una profonda comprensione empatica della pervasività di alcune forme dissociative che rischiano di informare il comportamento divenuto disorganizzato delle vittime di violenza quando chiedono aiuto e che ne minano la sicurezza e il percorso di fuoriuscita dalla violenza.
La disperazione che può emergere quando si arriva a vedere il crollo dell’illusione connessa alla progettualità di vita con il partner e che sovente si sfiora nel momento dell’ennesima aggressione, tocca abissi insondabili ma soprattutto indicibili; ecco dunque che, il profilarsi di un simile scenario di perdita può, a livello implicito, coincidere con la viscerale esperienza della donna di perdere sé stessa poiché quel senso di sé riflesso che in passato le ha garantito la sopravvivenza, oggi sembra condannarla a contattare solo il fantasma di un vuoto di sé, più illusorio che reale.
Come figure di supporto ci si può trovare a compartecipare e respirare quel senso adesivo e colloso di profonda perdita, abbandono ed impotenza laceranti e pervasive di chi proietta sul proprio compagno immagini grandiose di una figura totipotente, investita del potere di vita e di morte dalla donna con cui è in relazione e che tanto sembrano ricalcare l’esperienza che un neonato può esperire dinnanzi alla figura genitoriale; non occorre ricordare come talvolta da simili immaginari, scaturiscano profezie che si autoavverano, i cui disastrosi esiti, purtroppo le cronache quotidianamente ci raccontano.
Il concetto di MOID, dunque, è utile per cercare di spiegare alcune peculiarità in cui ci si può imbattere all’interno delle relazioni d’aiuto a sostegno delle vittime di violenza nelle relazioni di prossimità. Perché la donna dovrebbe allontanarsi da sé e non prendere adeguata consapevolezza dei rischi in cui è immersa? In estrema sintesi, l’ipotesi è che la scelta inconscia ed implicita delle diverse strade dissociative si ponga a protezione del nucleo affettivo-relazionale, che in passato è stato imprintato nel corpo come garante di sopravvivenza e che si riattualizza nella relazione con il maltrattante a dispetto di ogni evidenza.
Il distacco che vigila sull’incolumità dell’ideale di una relazione che finisce col pretendere olocausti, rischia di far perdere di vista alla vittima il quadro complessivo ed il suo limite, nutrendosi di minimizzazioni, sottostime e della irreale convinzione di saper gestire e contenere tutte le possibili future esplosioni.
Tale scollamento da sé può sostanziarsi in molti modi, come ad esempio nella porosità atemporale della memoria disseminata di vuoti e lacune che racconta del sottostante ed incessante lavorio della rimozione per «impedire la consapevolezza» (V. Caretti, G. Craparo, 2008, p.333); e come ci ricorda Bromberg (2007, pg. 96) citando Loewald (1972) «[L’] individuo non solo ha una storia che un osservatore potrebbe chiarire e descrivere, ma è [anche] una storia».
Con l’attenuarsi dei ricordi e della memoria, per le donne rimane difficile viversi in continuità con il proprio passato ed altrettanto difficile è proiettarsi in un futuro diverso, rimanendo piuttosto incagliate in un eterno presente privo di speranza, colmo di aspettative illusorie spesso disattese e scandito da rituali utili ad evitare percosse psichiche e fisiche.
Appare evidente come questo stato di cose, possa ostacolare una completa stesura della denuncia e l’ottenimento di adeguate misure restrittive, ma anche una realistica percezione del rischio, essendo carente la visione complessiva dei traumi subiti. Ricordare potrebbe implicare dover scegliere di allontanarsi e ciò ravviverebbe lo stridente permanere nell’incongruenza del paradosso che viene sostanziandosi, ossia l’inconciliabile bivio tra amore e paura, che può alimentare quella paralisi e quella spaccatura nell’integrità del sé della donna.
Successivamente, e col perdurare della violenza, tali meccanismi difensivi tenderanno a divenire fortemente disadattavi e disfunzionali per il benessere psicofisico della donna. Inoltre, tale carenza di integrazione degli eventi e degli aspetti scissi del partner, visto alternativamente come ‘tutto buono o tutto cattivo’, promuoverà un analogo senso di scissione nel modo di funzionare della mente della donna che subisce violenza, che si percepirà alternativamente come fortemente deficitaria ed impotente, ma anche illusa di poter gestire ed anticipare la prossima aggressione, rimodulandosi e plasmandosi per contenere l’ennesima imprevedibile deflagrazione del partner, facendosi metaforicamente sempre più piccola, fino quasi a sparire da sé.
A tal proposito, appare a mio avviso chiarificatrice l’analogia del palloncino, utilizzata da Bennett Shapiro per descrivere la condizione dei confini permeabili dello Schizoide Flaccido, per descrivere come la «sottomissione divenga l’unica strategia per sopravvivere» [4] al senso di totale annichilimento sperimentato in età evolutiva, nelle interazioni con un materno ambivalente, ostile e/o ansioso. Analogamente Lowen sostiene: «Per il bambino, sottomissione vuol dire sopravvivenza» (Lowen, 2013, p.51). Ecco quindi che preservare i legami di attaccamento significativi, rinunciando e mortificando i propri bisogni, il proprio Bambino naturale e dunque il proprio Sé autentico, diviene l’unica moneta di scambio possibile; in seguito, tale mancanza o lassità di confini tra sé e l’altro, risultato di un carente o lacunoso sviluppo di un’identità autonoma e sufficientemente differenziata (Marchino L., 2011), potrebbe essere la premessa affinché l’incontro con l’altro da sé, divenga facilmente con-fusivo e confondente.
Ed ancora, il trauma parcellizza l’esperienza e lascia spazio al caos ed allo smarrimento di senso. La donna si trova davanti ad un bivio che la lascia impantanata nell’implicita incongruenza della doppia minaccia subìta: violenza protratta nel tempo e pervasiva della sua quotidianità e contingente perdita della persona amata che la agisce.
Vale la pena di soffermarsi brevemente su come il Sistema Nervoso Centrale sia costantemente impegnato a decodificare e filtrare le informazioni per organizzare e dare senso all’esperienza, proprio come dimostrano le teorie gestaltiste rispetto all’analisi delle immagini incongrue: gli illusory contours. Secondo i principi di completamento della percezione (visiva), accade che «Il soggetto è sollecitato a produrre, sulla base di alcuni elementi o indizi disponibili, un’estensione o un riempimento che consentano appunto di completare in qualche modo una rappresentazione percettiva, la quale diviene così più compiuta, regolare e ordinata, evitando quelle che altrimenti sarebbero esperienze di irregolarità, frammentazione, caoticità» (Bonaiuto P., Batoli G. Giannini A. M., 1994, pag. 46-50.).
Ritengo dunque plausibile pensare che, se la posta in gioco è lo smarrimento ed un vuoto abbandonico viscerale, alla donna che subisce violenza possa accadere di tagliare fuori dalla propria esperienza percettiva ricordi, dettagli significativi e/o interpretare aspetti della relazione con il violento per colmare quel vuoto di senso che spesso rende indicibili tanti aspetti della violenza intrafamiliare.
Si chiede Lowen (1972) «Perché l’orrore stordisce la mente? (…) Penso che l’elemento essenziale è che l’orrore è incredibile. Non tutti gli eventi incredibili costituiscono un’esperienza di orrore, ma ciascuna esperienza di orrore è incredibile. La mente non è in grado di comprendere la logica o il significato dell’evento. Non trova un senso. Non è possibile che accada. (…) L’orrore non è la sola reazione verso un evento incomprensibile. Un’altra reazione è il timore. Un evento o una situazione che la mente non è in grado di accogliere (comprendere), sarà visto con orrore o timore» [5]. Ed aggiunge Berceli (2010, pp. 107-108) «L’intorpidimento del corpo durante l’evento traumatico è un naturale meccanismo protettivo. (…) Se quell’immaginazione è terrificante e grottesca o orripilante, il corpo continuerà a rendersi emozionalmente indifferente per scappare da questa opprimente ideazione».
Parcellizzando l’esperienza senso-emotiva, parallelamente si vedrà emergere un concomitante senso di colpa schiacciante ed onnipotentemente disfunzionale [6], pur di venire a capo della crescente confusione e impotenza, nella vana ricerca di quel dettaglio trascurato, che forse avrebbe potuto evitare l’ennesima aggressione. Tale confusione è ulteriormente alimentata dalle false riappacificazioni in cui, per brevi periodi, sembrerà tutto tornato tranquillo e ciò nutrirà la speranza che le cose cambino, andando a scoraggiare iniziative di fuoriuscita dalla violenza. È proprio l’altalenare di queste fasi, che spesso porta alla perdita delle capacità critiche generando ottundimento e disorientamento.
A questo vengono spesso a sommarsi altre forme di ‘distacco’ rintracciabili negli stati di iper-arousal, a mio avviso uno dei volti attraverso cui la dissociazione si sostanzia. Ad esempio, nell’iter di fuoriuscita dalla violenza si può incontrare in una donna apparentemente volitiva ed orientata alla denuncia ed a contattare tutti i servizi sul territorio che la possano supportare nel suo progetto, salvo poi, una volta ottenuti i riscontri desiderati, sperimentare un forte senso di frustrazione fino al collasso implosivo della sua progettualità. Ciò è possibile quando, per far fronte alla situazione traumatica, l’iper-attivazione inizialmente permette di bypassare il dolore e non contattare l’angoscia sottostante lo svincolarsi dal partner ed il conseguente senso di vuoto e di colpa paralizzante. Qui, di fondamentale importanza è il ruolo dell’operatrice antiviolenza che farà da sponda e contenitore all’auto-sabotaggio ed all’allagamento dell’ansia, analizzando l’emergenza in base ai dati di realtà, ricreando una spazio ed un tempo interni in cui contenere questi stati angosciosi e disgreganti, affinché la donna non debba tornare sui suoi passi, ponendosi nuovamente a rischio.
Corpi maltrattati e trauma
All’evidenza della maggior parte dei colloqui giunge in primis il corpo maltrattato e ferito della donna a testimonianza di una quotidianità offensiva e lesiva del suo senso di sé, integrità e vissuti. Lo stato di vulnerabilità, di iper-arousal disperante, la postura, la voce e gli occhi intrisi di vergogna, rabbia disorganizzata e auto-diretta nell’immediatezza del trauma, nel corso dei successivi colloqui di sostegno spesso lascerà il posto al dilagare di parole, al frammentarsi dell’esperienza di sé relegando il respiro a superficiali e frugali attimi rubati, facendo emergere il pallore dello spavento e dell’impotenza, unitamente ad uno sguardo spesso distante, ritirato, vacuo, in fuga.
Sappiamo bene come i meccanismi di difesa siano modi di sentire, pensare ed organizzare il proprio comportamento sorti in risposta alla percezione di pericolo psichico, atti ad «allontanare dalla coscienza contenuti spiacevoli» o disturbanti (Lingiardi V., Madeddu F., 1994, pag. 3-34). Tali organizzazioni difensive, inconsciamente, cercano di regolare le tensioni che scaturiscono dal rapporto con la realtà e non sono di per sé patologiche ma possono divenire disadattive nel momento in cui sono soggette ad eccessivo irrigidimento, come accade se innescate dal circuito della violenza reiterato nel tempo.
Caratteristica saliente dell’evento traumatico consiste nel suo potere di infondere terrore ed impotenza. Chi è sopravvissuto ad eventi traumatici ‘straordinari’, non perché rari, imprevisti e limitati nel tempo (Ex: incidenti, catastrofi), ma poiché in grado di sopraffare le normali capacità e risorse di adattamento alla vita, può sviluppare una serie di disturbi. È importante sottolineare come, anche apparentemente ‘semplici’ minacce ed intimidazioni quotidiane o l’esposizione continuativa a maltrattamenti di varia intensità e tipo, possano dare adito a traumi psicofisici, connotati dalla sintomatologia del Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) in forma più o meno pervasiva, difficile da determinare aprioristicamente.
Le reazioni traumatiche si verificano quando risulta impossibile mentalizzare o agire un’azione di difesa e si avverte un senso di sopraffazione ed impotenza; è la realtà psichica della resa a ciò che viene vissuto come intollerabile e senza vie d’uscita che fa sì che si trascurino le condotte a salvaguardia della propria incolumità psicofisica È importante sottolineare come, quasi tutti i sintomi del Disturbo da stress post-traumatico, siano riconducibili all’attivazione del sistema di difesa e alle quattro risposte fondamentali – Fight/Flight/Freezing/Faint – proprie della storia evolutiva di diverse specie di mammiferi, prima ancora che dell’essere umano. Se non si ha la possibilità di difendersi attaccando (Fight) o fuggendo (Flight), e la paura è molto intensa può comparire un comportamento di resa sotto forma di allerta e ‘congelamento’ (Freezing) dove l’unica via di fuga resta l’immobilità e si entra in uno stato di passività ipometabolica con conservata padronanza della motilità, con l’anestesia del corpo, responsabile di alcuni stati dissociativi, che appare essere l’unico mezzo per ‘non sentire’ il dolore e la sofferenza psichica soverchiante. Se il corpo non riesce a far fronte a tutte queste sollecitazioni del sistema simpatico, avviene lo svenimento (Faint).
A mio avviso il perdurare e l’estendersi delle mappe traumatiche nel contesto delle relazioni significative per la donna, può portare ad una sorta di congelamento del pensiero, un impasse che nella vittima di maltrattamenti circoscrive la possibilità di attingere alle risorse e capacità di self-agency, avendo istintivamente appreso l’immobilità ed il cronico blocco del respiro come condizione che la rende ‘invisibile’ all’aggressore.
L’essere dunque esposti a eventi traumatici può generare un senso di erosione del sé e modificazioni profonde (durature o transitorie a seconda dei fattori buffer di cui dispone la donna) nella psicofisiologia di chi subisce maltrattamenti e ciò a livello cognitivo, fisiologico ed emotivo, portando talvolta alla frammentazione di funzioni normalmente integrate.
A questa cornice spesso va a sommarsi l’isolamento, il che implica che nel tempo, l’unica voce e l’unico punto di riferimento divenga il maltrattante stesso che lentamente ed attraverso condotte manipolative, minacce, violenza psicologica e fisica, le farà terra bruciata attorno attraverso la svalutazione e in maniera più sottile con la lusinga manipolativa. L’isolamento dalle amicizie e dal contesto della rete sociale, familiare e lavorativa lentamente fa perdere i punti di riferimento e di confronto alla donna, che dal canto suo, nel tentativo di arginare le esplosioni di rabbia e le eventuali reazioni violente, nel tempo tenderà ad ‘autoregolarsi’ comprimendo la sfera dei propri interessi e delle relazioni sociali, riducendo le uscite con gli amici e la frequentazione dei propri cari, rinunciando al lavoro e chiudendosi sempre più nelle mura domestiche, finendo col mortificare la propria libertà ed autonomia e circoscrivendo sempre più la possibilità di ricevere supporto. Tale senso di isolamento sociale e culturale indotto dalle violenze andrà con il tempo a generare nella donna il sentimento della vergogna che, come spiega Donna Orange (2016), come tutte le emozioni è intersoggettiva, e, in particolare, aggiunge (2016), citando Morrison (1984) «l’umiliazione rappresenta la più forte esperienza di vergogna che riflette un pesante svergognamento esterno o una forte ansia di vergognarsi per mano di un oggetto altamente investito (un altro significativo)» come accade appunto nei rapporti con il partner maltrattante. In quanto tale, produce una condizione di sofferenza profonda legata soprattutto ai rapporti con gli altri poiché è generata dalla paura dei loro giudizi negativi sul proprio conto che fanno da cassa di risonanza al proprio giudizio negativo di sé, avvalorando e consolidando un senso di fallimento. La vergogna richiama il tema del nascondimento[7] e del ripiegamento su sé stesse, l’appartenere alla ‘categoria di vittima’ spesso implica uno status di impotenza e disistima che non facilità la possibilità di chiedere sostegno alla rete dei rapporti di prossimità. Accadrà quindi, con il tempo, che la donna non si sentirà legittimata ad aprirsi per raccontare la propria storia di maltrattamenti, perché vissuta come qualcosa di cui essa stessa è responsabile con un conseguente profondo senso di colpa e, appunto, vergogna; questo circolo vizioso non farà altro che stringere ancora di più attorno alla donna le trame della violenza e del silenzio, rendendole sempre più difficile uscire dalla spirale di violenza.
Il trauma e la funzione della paura nella relazione d’aiuto
Il trauma nelle relazioni intime ha dunque una precisa connotazione, una complessità che non si dovrebbe sfrondare ma cercare di cogliere nella sua essenza multidimensionale.
La paura spesso anestetizzata della donna che subisce violenza può trovare uno spazio di rispecchimento mentalizzabile nella paura incarnata dall’operatrice antiviolenza che attraverso rimandi cauti e mirati, può far risuonare, metabolizzare ed infine verbalizzare, la propria paura e preoccupazione, utilizzandola come strumento empatico di risensibilizzazione ad una visione critica della realtà, per arrivare a far percepire alla donna, la paura, per troppo tempo negata. Questa modalità di porgere il proprio vissuto, in un’ottica di self-disclosure, rifugge dallo stabilire che ‘l’operatrice sappia meglio della donna stessa, ciò che prova’ e prende le distanze da interventi volti a rivittimizzare l’utente. L’operatrice, attraverso la condivisione attenta e calibrata, ad esempio, del proprio controtransfert somatico, vuole sciogliere il senso di ottundimento e torpore, portando l’attenzione su ciò che si era mosso nella donna ma era stato cestinato e scartato, in favore della protezione della relazione di coppia e dell’illusione che essa ha implicato[8]. Ciò a lungo andare fornisce un tempo di qualità ed un luogo sicuro in cui risintonizzarsi sulle proprie sensazioni corporee ed emozioni, legittimandole, poiché sostenute in una relazione d’aiuto che restituisce valore, senso e dignità al percetto della donna. In quest’ottica la paura dell’operatrice come strumento, aiuta a valutare assieme alla donna, secondo un criterio di realtà, l’entità del rischio, vagliandone ogni aspetto cui è esposta nel qui ed ora della richiesta d’aiuto ed orienta l’intervento e le risorse da attivare. La comprensione incarnata controtransferalmente, fatta di risonanze emotive empatiche interne al corpo dell’operatrice antiviolenza (come pure del terapeuta, se in ambito psicoterapico), promuove la possibilità della progressiva crescita del sé che incoraggia una maggior contatto ed una crescente consapevolezza delle proprie capacità di self-agency (Heinrich-Clauer, 2013, pp. 349-357).
Conclusioni
In tutta questa complessità di fattori che si intersecano strettamente invischiando la donna che subisce maltrattamenti, il processo di superamento del trauma può essere considerato un processo in quattro fasi: esperienza, resistenza, sopravvivenza e superamento. In questo processo è importante trovare un modo per scorgere e porgere la possibilità di superare gli esiti psicofisici che il trauma comporta e che possono riattivarsi in continuazione con flashback, sentimenti di forte ansia ed agitazione, perdita e sociale.
Per concludere, credo che la relazione d’aiuto soprattutto nel confronto con lo spinoso tema della violenza nelle relazioni intime, possa essere nutriente e trasformativa solo se ci si pone su un piano di condivisione umana di tematiche antiche che risuonano in ciascuno di noi e con autenticità in «un riconoscimento, privo di giudizi, dell’eterna ed inevitabile collisione tra senso di sé ed empatia» (Bromberg, 2007, pg. 94).
Parole chiave
Donne, violenza, dissociazione, controtransfert corporeo, Analisi bioenergetica.
Key words
Women, violence, dissociation controtransfert corporeo, Bionergetic analysis.
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Sitografia
http://pasqualettoelisabetta.weebly.com/blog/la-psicologia-della-gestalt-intervista-a-barrie-simmons
http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2015/01/Attaccamenti-Traumatici.pdf
Note
[1] Concetto elaborato a partire dalle teorizzazioni di Bowlby di MOI (Modelli Operativi Interni), secondo quanto concerne la sua Teoria dell’Attaccamento. Albasi C., Attaccamenti Traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati, http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2015/01/Attaccamenti-Traumatici.pdf, Capitolo 3, pg. 4.
[2] http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2015/01/Attaccamenti-Traumatici.pdf , pg. 2.
[3]http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2015/01/Attaccamenti-Traumatici.pdf, pg. 4-5.
[4] Bennett Shapiro: «Submission became its way of survival». Materiale didattico, pg.3.
[5] A. Lowen, “Orrore e terrore come esperienza quotidiana”, Quattordicesima Conferenza Pubblica Annuale tenuta presso la Community Church di New York – Settembre 1972, punto 3. http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/psiche/lowen4.htm
[6] In soldoni: “È accaduto perché ho sbagliato qualcosa. L’ho fatto innervosire, me lo sono meritato!”.
[7] In inglese il termine shame deriva dalla radice indoeuropea kam che vuol dire nascondere.
[8] Accade spesso infatti che, ripercorrendo accanto al sentire dell’operatrice, le trame di ciò che a livello profondo ed istintivo, la donna aveva effettivamente provato e subodorato in termini di preoccupazione, spavento e paura, si possa notare anche quanto frettolosamente tali sensazioni siano state ricacciate nella terra del rimosso, assieme a parte dello sgomento che hanno ingenerato.