Perché tradiamo? Perché le persone felici tradiscono? Quando parliamo di fedeltà a cosa ci riferiamo di preciso?
Non è facile dare una risposta univoca a questi interrogativi, sebbene ciascuno di noi probabilmente possa aver già avuto occasione di lasciarli schiudere dentro di sé. Con tali domande Maria Rita Sclavi, psicoterapeuta e docente SIAB, ha lasciato che i partecipanti alla conferenza potessero confrontarsi in un piacevole dialogo da lei guidato. Innumerevoli sono stati gli spunti che la tematica ha sollevato, così come molteplici sono le prospettive da cui il tradimento è stato osservato e analizzato.
Senza cadere nel mito del diverso approccio maschile e femminile – che vuole l’uomo più interessato al sesso, la donna all’amore – è stato affascinante scoprire come a livello biologico e neurofisiologico ci sia una significativa differenza di genere rispetto alla sessualità. La donna ha una quantità di testosterone (l’ormone che regola il desiderio) dieci volte inferiore a quella dell’uomo anche se è ad esso più sensibile: il desiderio femminile è più intermittente perché legato al ciclo mestruale (con un picco durante l’ovulazione) e al ciclo di vita, con un diminuzione che solitamente avviene durante la menopausa.
Nell’uomo, invece, non ci sono variazioni sensibili durante il mese e nell’arco di vita. Tutto ciò è plausibile che renda gli uomini più propensi a dare sfogo alla tensione sessuale, più stabile e costante, e le donne più orientate verso il raggiungimento o consolidamento di una più profonda intimità. Valorizzare tali differenze e la specificità dei generi è, però, cosa ben diversa dall’avallare preconcetti o rinforzare stereotipi: negli ultimi 30 anni numerosi studi e ricerche hanno più volte sfatato i diffusi luoghi comuni sulle presunte distanze tra uomini e donne riguardo la sessualità. Fra questi: che i maschi siano promiscui e le donne monogame, e che il sesso occasionale possa piacere più a lui che lei. Il tradimento non è una questione di genere ma una dinamica complessa che mette in gioco aspetti molteplici della persona su un piano psicologico, relazionale, morale.
Se, come il vocabolario sottolinea, tradire significa “venir meno al dovere o all’impegno di essere fedeli verso chi si ama”, l’infedeltà è spesso vissuta come una minaccia al Sé: non solo manda in frantumi l’ambizione e il mito dell’amore ma ci mette di fronte alla violazione della fiducia e a una crisi di identità (“pensavo di sapere chi tu fossi…”) che ci riporta inevitabilmente a noi. Cercare se stessi attraverso l’altro è deviare lo sguardo da dentro a fuori, una ricerca compensativa di ciò che non si riesce a trovare o accettare in sé.
Considerare il tradimento come un ‘sintomo’, questo l’invito della Sclavi, significa attribuirgli un senso che può essere compreso, implica accettare che possa manifestarsi sotto molti aspetti (disprezzo, trascuratezza, indifferenza, violenza). Soprattutto, ci immerge nell’ambiguità delle umane cose, che difficilmente si rivelano buone o cattive tout court: se da un lato il tradimento ci racconta il dolore o il presunto fallimento di un’esperienza, dall’altro si fa occasione di crescita e scoperta di sé.
Siamo esseri sociali, bisognosi di ricevere sostegno e appoggio: una forma di dipendenza è sempre implicita nelle relazioni, a partire da quella primaria che il neonato stabilisce con la figura materna. E’ proprio Bowlby a sottolineare come le relazioni vissute in età adulta ricalchino gli schemi di attaccamento con cui il bambino nella prima infanzia si lega alla madre o al caregiver. Numerosi studi evidenziano come le persone ripropongano situazioni già vissute, nello specifico come gli adulti riattivino modelli di relazione interiorizzati nell’infanzia e le modalità con cui si sono relazionati alle figure significative.
Le dimensioni della dipendenza e dell’indipendenza sono il perno attorno a cui la conferenza ha ruotato e, non a caso, sono alla base di ogni relazione. In un legame maturo, c’è un bilanciamento tra dare e avere: la capacità di chiedere aiuto e affidarsi si accompagna all’autodeterminazione e all’abilità di effettuare scelte in autonomia. Una relazione sana è caratterizzata da una situazione di scambio reciproco, di arricchimento e crescita bidirezionali.
Quando dipendenza e indipendenza si scollegano e smettono di compensarsi, il rischio è di intravedere la deriva psicopatologica: la relazione si fa malsana perché contrassegnata da un forte aspetto di dipendenza, che va ben oltre la necessità di avere un partner nella propria vita come punto di forza.
La dipendenza affettiva è sintomo di uno squilibrio relazionale che avviene quando il soggetto non riesce a integrare prima di tutto dentro se stesso le due dimensioni (dipendenza/indipendenza). S’insinua nella coppia un aspetto nocivo che molto facilmente può tradursi in un rapporto logorante in cui il soggetto con una vocazione dipendente (“ti amo perché ho bisogno di te”) diventa succube del partner, molto spesso un co-dipendente (“ti amo perché hai bisogno di me”) o contro-dipendente affettivo (“non ho bisogno di te”). In quest’ultimo caso, si tratta sovente di persone che possiedono una forte componente narcisistica che, incarnando un ideale di sicurezza e perfezione, attraggono fortemente a sé chi nell’altro cerca un insostituibile punto di riferimento.
Non è raro per chi ha un vissuto legato al rifiuto, all’abbandono, avvertire la profonda incapacità di accettare la solitudine e, pur di non viverla, lasciarsi coinvolgere in una relazione in cui tenderà a esserci in funzione dell’altro. Il partner, ci spiega la Dott.ssa Sclavi, diventa indispensabile, assumendo la funzione di regolatore emotivo esterno, anche per il mantenimento di un senso di autostima e integrità personale. In tale posizione, il dipendente affettivo rischia non solo di sentirsi subordinato all’altro ma la relazione va a costituire l’unico ambito per sentirsi vivo e motivato.
Non è difficile intuire quanto il tradimento e/o un’eventuale separazione possano allora essere vissute con estrema difficoltà: se sciogliere un legame affettivo mette noi tutti di fronte a una dinamica dolorosa e certo complessa, la persona affettivo-dipendente potrebbe facilmente entrare nel panico, tutelandosi con l’unico mezzo a sua disposizione: garantirsi la prossimità del partner. Il prezzo da pagare è spesso molto alto: per evitare di separarsi, il dipendente potrebbe rinunciare ai propri interessi, ad aspetti per lui importanti (le amicizie, il proprio lavoro, le passioni), col rischio di trascurare se stesso e la propria rete affettiva, fino a isolarsi.
Winnicott nel 1958 scriveva: “dopo un rapporto sessuale soddisfacente, ciascun partner è solo ed è contento di essere solo”. Ecco allora che imparare a stare da soli, in compagnia di se stessi, diviene una possibile strada per uscire da una forma di assuefazione che illude il dipendente affettivo di aver trovato chi lo salverà dalla sua solitudine emotiva, paradossalmente ritrovandosi poi nella relazione più solo e abbandonato di prima. Separazione e fusione sono elementi complementari, fondanti di una sana relazionalità di coppia.
Mi piace lasciarci riportando qui di seguito una breve ma significativa citazione del Dr. Lowen con cui la conferenza si è chiusa. Parlando dell’esperienza orgasmica, nel 2001 il padre della Bioenergetica scrive:
“Per perdersi ci si deve prima possedere, ma solo se ci si perde ci si può riconquistare”.
Maurizio Formiconi