Casualmente ho riletto, dopo molto tempo, il racconto di Tolstòj La morte di Ivàn Il’íč (1868)[1], e sono nuovamente rimasto colpito dall’intensità e profondità di questo racconto, a ragione uno dei testi più famosi della letteratura moderna. Il racconto parla della vita di Ivàn Il’íč, giudice della Corte d’assise di Pietroburgo, che nel pieno della sua esistenza, all’età di 45 anni, viene colpito da una malattia misteriosa che nel giro di poco tempo lo porta alla morte.
La descrizione di questa vicenda inevitabilmente tocca il lettore a livello esistenziale e suscita anche molti interrogativi sul nostro ruolo e intervento come psicoterapeuti. Sarebbe utile addentrarci perciò in un’ampia e approfondita analisi, ma soffermiamoci qui su tre punti focali con cui il racconto ci confronta: la questione dell’autenticità, la narrazione di sé come fonte della nostra identità, e infine l’importanza del contatto fisico come ponte salvifico tra le persone.
Autenticità
Ai corsi di giurisprudenza egli era già perfettamente uguale a quel che in seguito sarebbe stato per tutta la vita: un uomo abile, socievole e pieno di allegra bonarietà, ma capace di svolgere con serietà quello che riteneva fosse suo dovere; e riteneva fosse suo dovere tutto quello che veniva ritenuto tale dalle persone altolocate (p. 14).
Da questa descrizione del giovane studente universitario si evince subito come tratto caratteristico l’ingenuo conformismo di questo personaggio e del suo stile di vita. Infatti, il narratore non si stanca di sottolineare la conformità del suo comportamento con le norme sociali e le aspettative dell’ambiente circostante. Ivàn si comporta perfettamente comme il faut ovvero del tutto “a modo”, conducendo così una vita “liete, piacevole, decorosa” (29). Ciò vale per la sua attività professionale come giudice, un ruolo che sa gestire abilmente e con la dovuta separazione tra rapporti di lavoro e rapporti personali. E ciò vale anche per la sua vita privata, in primo luogo per il suo matrimonio, che nonostante numerose difficoltà con sua moglie riesce a portare avanti creandosi ampi spazi di distanza e di libertà.
In ultima analisi, la vita di Ivàn Il’íč si svolge in quella modalità che Martin Heidegger in Essere e Tempo (1927) descriverà col concetto di Uneigentlichkeit, di in-autenticità. “In-autenticità” indica un comportamento generale appoggiato sulle convenzioni sociali e alleviato perciò dalle responsabilità che ogni vera scelta personale comporta: “gli altri” ci hanno già pensato. La presa di consapevolezza della morte, invece, è per Heidegger l’evento chiave che costringe ognuno singolo ad assumersi la responsabilità della propria vita e delle scelte che sono state fatte e non fatte. La presa di consapevolezza della morte è l’evento privilegiato per aprire lo spazio dell’autenticità (Eigentlichkeit).
Ed è esattamente ciò che avviene nel racconto. L’avvicinarsi della propria morte rivela in maniera crescente l’insopportabile menzogna collettiva intorno alla malattia, “quella menzogna, chissà perché data vera da tutti, secondo la quale lui era soltanto malato, e non stava morendo, e che dovesse soltanto stare tranquillo e curarsi, e allora tutto sarebbe andato per il meglio” (p. 52). Ma allo stesso tempo, il protagonista si rende conto che anche lui nella sua vita professionale si è comportato in questo modo. “In loro vedeva se stesso”: esattamente come i dottori illustri che lo curano senza interessarsi a lui come persona, anche lui nella veste di giudice ha recitato il suo ruolo in maniera auto-compiaciuta, con indifferenza e senza partecipazione.
Di fronte a questa menzogna collettiva, nella condizione di estrema solitudine, le ultime due settimane di vita comportano per il protagonista, oltre alla sofferenza fisica, anche crescenti “sofferenze morali” (p. 69). Comincia a sorgere in lui una domanda inquietante: «“Forse non ho vissuto come avrei dovuto”, gli veniva improvvisamente in mente» (p. 64). Questa domanda, portatagli dalla “voce dell’anima” e prima “inammissibile”, si fa sempre più pressante, per arrivare alla convinzione che «”Si, tutto è stato come non avrebbe dovuto essere”, si disse, “ma non importa. Si può, si può fare come dovrebbe essere. Ma come dovrebbe essere?” si domandò, e improvvisamente tacque» (p. 72).
È interessante notare che il racconto non fornisce una risposta esplicita su come la vita di Ivàn Il’íč sarebbe dovuta essere, ovvero in che cosa consisterebbe quella che la tradizione filosofica chiama una vita buona.[2] Ma è proprio in questo modo che la ricerca della risposta viene rimandata al lettore stesso. Il lettore, empatizzando con il protagonista e rivedendosi in lui, all’improvviso si trova confrontato con la domanda inquietante dell’autenticità o meno della propria vita. Sta lì, nella maestria con cui Tolstòj riesce a portare il lettore esattamente a questo punto, la ragione del grande impatto esistenziale del racconto di cui sopra parlavamo.
Narrare se stessi
Ben intrecciato nella ricerca del senso della vita troviamo il secondo argomento su cui vogliamo soffermarci, la struttura narrativa della nostra identità. Tutte le teorie della narrazione, da Paul Ricoeur in poi, concordano nella convinzione che l’uomo è “un animale che racconta storie” (A. MacIntire). Infatti la nostra identità si compone in gran parte di tutte le storie collettive e personali che incessantemente ci vengono raccontate e che incessantemente raccontiamo a noi stessi. Narrare è un atto attivo, creativo (poiesis), un processo di continua re-figurazione degli eventi e del loro senso. Ciò vale in particolare se creiamo una sintesi narrativa di episodi di più lunga durata, larger-scale actions (D. Carr), come certi periodi o eventi della vita ritenuti significativi, o se guardiamo la vita nella sua interezza. Ed esattamente ciò succede a Ivàn Il’íč:
“Vivere? Come vivere?”, domandò la voce dell’anima. “Sì, vivere come vivevo prima: bene, piacevolmente”. “Come vivevi prima, bene e piacevolmente?” domandò la voce. Ed egli si mise a ripercorrere nell’immaginazione i momenti migliori della sua vita piacevole. Ma, cosa strana, adesso gli apparivano completamente diversi da come erano apparsi allora, Tutti, a eccezione dei primi ricordi dell’infanzia. Là, nell’infanzia, c’era qualcosa di effettivamente piacevole, con la quale sarebbe stato possibile vivere se fosse ritornato a lui. Ma l’uomo che aveva sperimentato quel piacere ormai non esisteva più: era come il ricordo di qualcun altro. Non appena aveva inizio quel processo che poi era sfociato in ciò che lui era in quel momento, l’Ivàn Il’íč di adesso, tutte quelle cose che un tempo gli erano sembrate fonte di gioia prendevano ora a disfarsi sotto i suoi occhi, e a tramutarsi in un che d’insignificante e spesso ripugnante (p. 63-64).
Solitamente siamo abituati, ponderando e rivisitando gli eventi della nostra vita, a tingerli in un’aura teleologica, a vederli come un processo essenzialmente sensato e direzionato e culminante nella persona che oggi siamo. Narrare solitamente è “trasformare contingenze in eventi dotati di senso”.[3] In questo senso, “una parte significativa dell’esperienza e della comprensione di sé è basata sulle narrazioni di sé, un processo continuo di creare formulazioni coerenti circa chi sono, chi sono stato, e dove vado”.[4]
Vediamo nel brano citato che anche Ivàn Il’íč è impegnato in questo processo auto-narrativo, in un’indagine sulla propria storia. Ma i risultati di questa indagine, sorprendentemente per il protagonista stesso, sono del tutto negativi. Tutto il sistema di credenze di Ivàn, le sue ferme convinzioni riguardo la sua vita piacevole e decorosa, si sbriciolano. Nel processo di presa di consapevolezza esistenziale, anche la narrazione consueta di se stesso si ribalta tramutandosi “in un che d’insignificante e spesso ripugnante”.
Vediamo che anche nel caso della narrazione autobiografica, la maestria di Tolstòj porta il lettore davanti a un quesito piuttosto inquietante. Come abbiamo visto, “tendiamo a costituire la nostra esperienza e la nostra identità attraverso auto-narrazioni”.[5] Ma, come giustamente osserva il filosofo Charles Taylor, these formulations can be right or wrong:[6] non c’è nessuna garanzia che l’immagine che ho di me stesso o che sono abituato a far apparire al mondo corrisponda effettivamente alla verità! Questa “complessa dialettica tra essere e apparire”, com’è stata chiamata, la possibilità di una verità nascosta allo stesso soggetto, rappresenta la maggiore difficoltà nella nostra ricerca di verità e autenticità. Rivela infatti the fragile nature of personhood, la fragilità insita nell’essere una persona.[7]
Contatto
Com’è possibile che Tolstòj riesca a tessere un “lieto fine” del suo racconto, a rimediare alla drammatica imminenza della fine, in modo tale che il protagonista possa riconciliarsi con la sua esistenza ed esclamare alla fine che “Al posto della morte c’era la luce” (p. 73)? Sintetizzando notevolmente, si può forse dire che è attraverso il contatto empatico che il protagonista alla fine riesce ad arrivare a questa riconciliazione con sé e col mondo.
La figura di Gerasim, un giovane servo della famiglia “sempre sereno e allegro”, unisce i due momenti dell’empatia e del contatto. È l’unica persona a provare compassione di Ivàn Il’íč, a non nascondere la verità della sua malattia e a parlare apertamente con lui; è una persona autentica. E Gerasim è l’unico a stabilire un contatto fisico con il moribondo, sollevando spesso per ore e ore, anche di notte, le gambe del suo padrone per dargli sollievo dal suo dolore.
Ciò viene incontro al desiderio nascosto di Ivàn – “per quanto si vergognasse a riconoscerlo” (p. 53) – di essere compatito, accarezzato , “che ci fosse qualcuno a cui spiacesse per lui, perché era malato, così come ci si dispiace per un bimbo malato” (pp. 53-54). Infatti, come abbiamo visto nella citazione riguardo la narrazione autobiografica, rimangono per il protagonista intatti “i primi ricordi dell’infanzia”, testimoni di affetti, vissuti e relazione autentici: “E più si andava all’indietro, più si trovava vita” (p. 67).
Oltre a Gerasim è Vasja, il giovane figlio, a provare pietà e compassione per il padre. Nel rapporto con Vasja, proprio nell’ultima scena del racconto, vediamo il significato del contatto ancora esaltato:
“Questo avvenne alla fine del terzo giorno, un’ora prima della sua morte. In quello stesso istante il ginnasiale piano piano penetrò nella stanza del padre, e si avvicinò al suo letto. Il moribondo continuava a gridare disperatamente e ad agitare le mani. La sua mano andò a finire sulla testa del ginnasiale. Il ginnasiale la afferrò, se la portò alle labbra e si mise a piangere.
In quello stesso istante Ivàn Il’íč sprofondo, vide la luce, e gli si rilevò che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che vi si poteva ancora porre rimedio” (p. 72).
Nota clinica
Autenticità, narrazione, contatto – è evidente quanto ognuno di questi aspetti ovvero quanto l’intero racconto di Tolstòj debba coinvolgere, a livello personale non meno che a livello professionale, chi di noi lavora come psicoterapeuta. Un elemento che si evince molto bene nella storia è l’eterno sospetto del paziente che il terapeuta rimanga troppo protetto dalla propria funzione professionale, e che perciò, come gli illustri dottori durante le loro visite, si limiti a recitare un ruolo anziché partecipare veramente e in prima persona al suo vissuto. Ci vengono in mente soprattutto certi pazienti che spesso si lamentano della loro solitudine.
Per quanto questi peana possano apparire sterili e ripetitivi, vanno comunque accolti con la massima apertura e disponibilità, visto che dietro ai lamenti della solitudine facilmente si cela l’angoscia della morte di queste persone, l’angoscia di dover morire e di dover morire da soli. Il terapeuta dovrebbe in questi casi procedere con fiducia e coraggio; non deve riproporre anche lui la menzogna collettiva della rimozione, del tabù della morte.
Qualcosa di simile vale per le narrazioni del paziente. Roy Schafer ha descritto lo psicoanalista come persona “che ascolta le narrazioni dei pazienti, aiutandoli a trasformarle in narrazioni diverse e più complete, coerenti, convincenti e più utili adattivamente che non quelle che sono abituati a costruire”.[8] Anche riguardo le narrazioni del paziente, ci è richiesta in primo luogo la massima apertura e disponibilità di partecipazione ai loro vissuti.
Nel processo di lavoro con questi racconti, il terapeuta facilmente cede alla tentazione di offrire prematuramente delle soluzioni “positive” o troppo facili, soluzioni che il paziente non può o non è pronto ad accettare. Pensiamo qui soprattutto a pazienti con un disturbo narcisistico che si costruiscono dei racconti di sé auto-compiaciuti, troppo “coerenti”, con le parole di Schafer. Ma proprio come il protagonista del racconto, anche questo tipo di pazienti ha bisogno di sentirsi autenticamente preso sul serio nelle proprie difficoltà. E, come noto, la sensazione stessa di sentirsi veramente ascoltati con le proprie difese e difficoltà spesso apre la strada al loro superamento.
Il contatto corporeo come viene usato nell’analisi bioenergetica rappresenta senz’altro un mezzo potente in questi processi di guarigione, non per ultimo per le qualità regressive di cui dispone. I nostri primi vissuti al mondo sono stati vissuti di contatto, e nel racconto si evince bene quanto il contatto possa venire incontro ai bisogni sepolti del bambino interiore, bisogni che il paziente adulto si vergognerebbe di ammettere. Aver intuito questo nesso tra il contatto fisico umano come e la via d’uscita dall’angoscia della morte, è uno dei grandi meriti di questo straordinario- racconto di Tolstòj.
Note
[1] Lev Tolstòj: La morte di Ivàn Il’íč e altri racconti. A cura di Igor Sibaldi, trad. it. di Serena Prina, Mondadori: Milano 1999, pp. 1-74.
[2] Christoph Helferich: La “vita buona”. La ricerca esistenziale tra filosofia e psicoterapia corporea. Roma: Armando Editore 2004.
[3] Norbert Meuter: Narrative Identität. Stuttgart: J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung 1995, p. 255.
[4] René Rosfort e Giovanni Stanghellini: “The Person in Between Moods and Affects”. In: Philosophy, Psychiatry, & Psychology, Vol. 16, n° 3, September 2009, pp. 251-266, qui a p. 261.
[5] Ibid., p. 262.
[6] Charles Taylor, “The concept of a person”. In: Human agency and language. Philosophical papers. Vol. 1, ed. C. Taylor, Cambridge: Cambridge University Press 1985, pp. 97-114; cit. in Rosfort e Stanghellini (vedi nota 4), p. 252.
[7] Rosfort e Stanghellini, ibid., p. 262.
[8] Cit. in Meuter, p. 249.