Il ruolo centrale del corpo per il nostro benessere generale è un principio oggi ampiamente condiviso, che sempre più si sta affermando anche nel campo della psicoterapia. Ma se questo principio è diventato quasi common ground, patrimonio comune in ambito di cura, rimane la questione di come applicarlo concretamente nella terapia. Quale posto potrebbe avere il corpo in uno spazio tradizionalmente riservato allo scambio verbale? In che cosa consiste il cosiddetto “lavoro corporeo”? Come tradurre, con altre parole, complessi problemi psichici in termini corporei?
Forse possiamo distinguere tre diverse risposte a questa domanda. La prima, e attualmente più diffusa in tutti gli approcci di psicoterapia, è l’attenzione continua, nel corso dell’incontro tra paziente e terapeuta, al vissuto corporeo di entrambi. Perché in questo incontro i corpi dei protagonisti parlano, in un fitto dialogo di gesti, sguardi, timbri della voce, ecc., l’uno all’altro, manifestando vissuti psichici spesso difficilmente afferrabili con la sola parola. Quest’attenzione continua al vissuto corporeo arricchisce e approfondisce il processo terapeutico, aggiungendo al dialogo la preziosa dimensione del non-verbale.
La seconda risposta va oltre l’attenzione continua e consiste nell’attivazione diretta del corpo nel corso di una seduta. Attraverso appositi esercizi il paziente acquista via via una maggiore consapevolezza e familiarità col proprio corpo e in particolare con il respiro, sede organismica della vita affettiva. Tali esercizi, oltre a favorire l’espressione emozionale, spesso comportano anche un effetto energetico vitalizzante, una maggiore presenza del paziente a se stesso. Gli esercizi bioenergetici aprono una porta d’accesso alla sua forza vitale, aggiungendo così un’ulteriore dimensione al processo terapeutico.
Ma esiste un’altra modalità ancora, oltre a quella dell’attenzione continua e quella dell’attivazione diretta, di includere il corpo nella terapia attraverso una sua attivazione indiretta o non-direttiva. In questa visione, si considera il corpo tout court come serbatoio, come espressione e manifestazione della storia personale del paziente, custodita nella memoria corporea. Ed è attraverso molteplici e delicate tecniche esperienziali che questo serbatoio si rende accessibile, in modo che le tematiche psichiche profonde del paziente affiorino e vengano alla luce. La tecnica di base di questo approccio al corpo è il contatto che il terapeuta dà al paziente secondo modalità definite, al fine di ottenere una attivazione organismica.
Ad esempio, in caso di avvertita rigidità negli arti inferiori – un sintomo che solitamente nasconde un vissuto di profonda paura – il terapeuta potrà dare un contatto prolungato ai vari segmenti degli arti – gambe, ginocchia, cosce, anche. Nel corso di un tale contatto, in una condizione di silenzio che agevoli un’esperienza regressiva, il paziente potrà sperimentare sia l’antica paura sottostante la sua rigidità, che la forza liberatoria di un sostegno ricevuto.
Naturalmente è impossibile e anche poco sensato voler distinguere nettamente queste tre modalità di presenza del corpo in psicoterapia; si tratta di confini fluidi che si sovrappongono. Il corpo, come è stato detto, è un “crocevia dove confluiscono occasioni” (G. Downing); terapeuta e paziente devono decidere insieme quali occasioni cogliere per la crescita di entrambi.