L’astinenza induce, almeno in me, la consapevolezza della necessità del contatto corporeo che questo tempo – “sospeso” e vissuto al rallentatore – ci riporta ad apprezzare assieme ad altre espressioni e altri comportamenti che, in quanto acquisiti, davamo come ovvi e scontati.
Ebbene il contatto corporeo è la prima forma di comunicazione che sperimentano madre e figlio nello spazio sacro della relazione primaria e che consente loro di iniziare una danza di sintonizzazione.
Contatto corporeo che questa diade declina in tante forme; una su tutte la suzione (che rientra a pieno titolo tra le esperienze cutanee e tattili del bambino) e poi il tocco della madre, come ci ricorda Massimo Recalcati:
Le mani di una madre sanno ospitare
la singolarità insostituibile e irripetibile del figlio (corsivo mio)
senza ridurre le sue cure a una serie di adempimenti.
(Recalcati M., Le mani della madre, Feltrinelli 2016, pag. 77).
Parte da lontano la funzione del contatto corporeo per tessere relazioni (dal grooming dei nostri cugini antropomorfi) fino alla ritualizzazione del contatto quale strumento di coesione sociale:
nelle religioni (penso uno su tutti al cattolico “scambio di un segno di pace”);
e in talune convenzioni sociali (le popolazioni asiatiche della penisola indiana, quando si incontrano e si fermano a parlare, usano tenersi per mano per attestare, e verificare al tempo stesso, la veridicità di quello che stanno esprimendo).
Sono tante le forme di contatto corporeo, seppure condizionate culturalmente:
possiamo annusarci, baciarci, guardarci, toccarci. Personalmente ritengo che la forma più potente per l’ingaggio sociale sia proprio il tatto.
Sappiamo infatti da studi neurofisiologici che a livello cerebrale funzionano due vie del tatto:
- a) le vie specifiche che vanno verso la neocorteccia e che veicolano le informazioni cognitive (ad esempio sulla forma, sulla consistenza, sulla temperatura di ciò che tocchiamo);
- b) le vie verso i nuclei aspecifici del talamo (che a loro volta “proiettano” al sistema limbico) che trasportano i sentimenti affettivi e, attraverso il coinvolgimento del vago, favoriscono la produzione di ossitocina e, quindi, la pro-socialità.
Il tatto è anche scambio e scoperta identitaria; scrive in proposito Walter Ong:
Il tatto implica la mia soggettività più di ogni altro senso.
Quando sento qualcosa oggettivo “la fuori”,
oltre i limiti del mio corpo,
nello stesso istante ho la prova della mia personale individualità.
Sento l’altro e me stesso contemporaneamente.
(Ong W. J., La presenza della parola, Il Mulino edizioni, pagg. 169-170)
Fino a prima della pandemia davamo per scontato il contatto corporeo, anche se spesso relegato a due soli ambiti:
quello sessuale e quello delle convenzioni di saluto.
In proposito mi piace pensare – al di là di positività stereotipate – che questo tempo, “sospeso” e vissuto al rallentatore, ci dia la possibilità di recuperare una dimensione altra del contatto corporeo:
quella dello scambio affettivo tout court, quella dell’ascolto e dell’incontro corporeo, quella zona liminare in cui il nostro movimento interno incontra quello dell’Altro.
La pelle deriva dallo stesso foglietto embrionale (ectoderma) dal quale derivano gli occhi, allora voglio metaforicamente auspicare che l’assenza del contatto corporeo che stiamo sperimentando in questi giorni ispiri una visione nuova, così da riuscire a dare a questo tempo di sospensione un senso nuovo: la possibilità di una nuova umanità che, per dirla con Zygmunt Bauman, ci salvi dalla tirannia dell’effimero!